INTERVISTA. Il vescovo Montenegro da un anno ad Agrigento
Presso lo stadio Esseneto, mons.Carmelo Ferraro consegnava il pastorale a mons. Francesco Montenegro, durante la celebrazione per l’inizio del ministero episcopale ad Agrigento. A distanza di un anno abbiamo incontrato mons. Montenegro e ci siamo intrattenuti con lui per un bilancio sull’anno trascorso in terra agrigentina.
Quali sono le sue impressioni?
«Sono contento perché ho trovato grande accoglienza venendo qui e, questa accoglienza, continuo sempre a verificarla, a scoprirla andando in giro e questo mi rallegra, mi incoraggia mi fa sentire vicino la gente e mi spinge a vivere in mezzo alla gente sempre di più. Ho visto comunità diverse, nell’insieme
ne devo parlare positivamente, ho incontrato comunità impegnate, vive e soprattutto, devo dire un grazie ai sacerdoti che operano e che lavorano con grande impegno, ma anche ai tanti laici impegnati e organizzati nelle diverse realtà ecclesiali. Di loro, nei vari incontri, mi ha colpito l’amore per questa Chiesa».
Come Chiesa abbiamo scelto di “fermarci” un anno scegliendo il tema dell’ascolto. Lei ha incontrato i sacerdoti ed i laici nei vicariati foranei, cosa sta venendo fuori?
«Non sono d’accordo sull’esserci fermati, perché l’ascolto è sempre un elemento attivo, un atteggiamento di cammino, un’accoglienza continua, quindi non reputo di esserci fermati un anno. Io come battuta ho sempre detto “facciamo una specie di tagliando della situazione” perché dopo tanto cammino possiamo correre il rischio, come i discepoli di Emmaus che erano amici di Gesù, di non riconoscerlo. Il male delle comunità e della vita di fede personale e che si è convinti che tutto proceda bene. Ecco la necessità di un “tagliando”: per farci vedere qual è la nostra situazione, se stiamo camminando, se è rallentato il cammino».
Cosa è venuto fuori da questo anno dedicato all’ascolto?
«Cosa ne è venuto fuori ancora non lo so perché tra un po’ tireremo le somme. Andando in giro ho visto che è stato accolto da parte di molti positivamente. In molte comunità si è fatto un ascolto serio, in altre un po’ più superficiale, molti hanno apprezzato questo “guardarsi” perché hanno rivisto la propria storia ed allo stesso tempo hanno risentito la voce del Signore che invita sempre ad andare avanti. Ma non possiamo mettere tutte le comunità sullo stesso piano, questo è certo, ci sono comunità con un cammino forte, bello e lo stanno intensificando, comunità che hanno ripreso il passo ed altre ho l’impressione, che continuino a restare ai margini ed allora essere insieme significa aiutarsi a camminare».
La sua agenda è sempre fittissima di incontri e appuntamenti, è andato nel territorio ma è venuta anche tanta gente a trovarla che le ha manifestato problemi, esigenze. Si è potuto rendere conto dei problemi e delle marginalità ed, in più occasioni, ricordiamo l’Immacolata, San Gerlando ed il Venerdì Santo ha lanciato dei messaggi alla città, ai suoi abitanti perché la amino di più.
“La Chiesa non è fuori dalla vita della gente ma è dentro la vita di un territorio e di una città. Abbiamo bisogno di parlare della città per sapere perché ci siamo e come ci dobbiamo essere. Parlo a tutti perché Agrigento merita questa attenzione, ma parlo soprattutto ai credenti perché quell’idea di quando sono venuto, di una Chiesa senza tetto e senza mura, come diceva mons. Bello, possa realizzarsi.
Non possiamo, ed il Signore non ce lo permette, chiuderci nei nostri ambienti, abbiamo bisogno di uscire nella città, misurarci con essa e mettervi quei valori che la fede ci trasmette e ci dà. É così che vedo l’essere comunità ed il cammino di ciascuno di noi. Mi spaventa l’idea di arretrare o di nascondersi dentro dei rifugi”.
Però questa sua posizione è stata un po’ criticata da chi la reputa come una “intrusione” in un mondo che non le appartiene.
Come posso fare Chiesa mettendo da parte la vita di tutti i giorni? Gesù stesso era un falegname, aveva i calli alle mani e forse anche dei tagli; Lui ha sempre parlato di quello che vedeva anzi, della vita di tutti i giorni portava gli esempi per trasmettere l’idea del Regno ai suoi, allora se noi siamo una continuazione di Gesù dobbiamo continuare con lo stesso stile.
Ha visto delle reazioni, dei cambiamenti positivi dopo i suoi discorsi alla città?
Il fatto non è che mi attendo risposte positive o meno, quello che mi fa pensare è che la gente, da qualunque parte, dalla Chiesa attende speranza e credo che sia il nostro ruolo in questo territorio, tra gli ultimi in rapporto al resto d’Italia. C’è bisogno di parlare di speranza non di illusione, perché la speranza non è un’illusione ma credere che dopo il buio spunti sempre la luce e credere che, anche noi,
credo lo dicesse La Pira, dobbiamo spingere il sole a spuntare. Essere cristiani significa aiutare il sole a venir fuori; perché questa terra deve essere obbligata, per indolenza, indifferenza o di proposito a restare al buio?»
Molti di coloro che gestiscono la cosa pubblica si professano cristiani, credenti però quando devono mettere in pratica i fondamenti della nostra fede se ne dimenticano.
Questo è un problema della loro coscienza. Loro sono cristiani e forse si dimenticano di esserlo, però ce ne sono tanti altri, e siamo noi, che eleggiamo chi deve stare in quel posto. Prendiamo consapevolezza che, la nostra presenza, non è solo nel tempio ma anche nella città, sentiamone la responsabilità e sentiamoci cittadini responsabili e forse, allora, sceglieremo altri, sceglieremo chi riterremo più capace però non delegando loro i compiti di aggiustare la città ma sbracciandoci tutti. La cittadinanza attiva è soprattutto questo. Noi alle volte diciamo “bè io ho scelto adesso tocca a lui”, no, tocca a me, ho scelto lui perché mi aiuti a muovere ed a cambiare la situazione.
E se chi ho scelto non mi aiuta?
«La prossima volta scelgo qualcun altro. Quindi risvegliare le coscienze dal torpore in cui si trovano. “Io non credo che Agrigento dipenda solo da venti, trenta persone, la provincia è composta da 450 mila persone e siamo 450 mila ad essere interessati. Se sento mia questa terra allora l’amerò, se la amo sceglierò ciò che è bene e chi fa il bene di questa terra. Quando mi accorgo che c’è qualcuno che, il bene di questa terra non lo fa, allora io, se mi sento attivamente impegnato, saprò che posso scegliere altri, ma soprattutto avremo la capacità di vivere con i piedi per terra in questa città ed in questo territorio. La delega e la cosa più semplice, ma non posso semplicemente delegare devo sentirmi dentro anch’io, devo dire all’altro “lavora con me e non lavora per me”.
Immaginava così la diocesi di Agrigento?
Non credo che sia l’ultima della fila perché è sempre ultima nelle classifiche. Credo che oggi sia difficile per tutti e per i cristiani prendere consapevolezza della propria fede; viverla significa rischiare. Ormai abbiamo ridotto la fede ad un’assicurazione, mentre essa è soprattutto rischio, dobbiamo metterci nel mezzo; è questo l’invito che sto facendo ai giovani, lo chiedo a loro perché il rischio ce l’hanno nel DNA. Proprio al Giovaninfesta parlavo loro di indignazione, ma non come sentimento negativo, ma come termometro della capacità di amare. Quando ciò che amo, la persona che amo viene offesa mi indigno, se resto indifferente significa che non mi interessa, allora invitavo
i giovani ad indignarsi per tutto ciò che va contro la vita e il loro futuro.
In quest’anno di sua presenza ad Agrigento più volte è intervenuto sui temi della marginalità sociale ed economica (ha istituito il microcredito per le famiglie in difficoltà) e su problematiche che travalicano i confini nazionali ma che ci vedono in prima linea come il triste fenomeno dell’immigrazione irregolare.
Quando ci si adagia e diminuisce l’intensità della speranza chi ne fa le spese è sempre l’ultimo della fila ed allora recuperare il cammino, dare vitalità agli ultimi della fila e permettere, finalmente, che gli ultimi della fila finiscano di esserlo. In una provincia del sud più sud di ultimi ce ne sono parecchi, oggi, qui, essere ultimo è essere giovani se non si ha una prospettiva di futuro; è essere un uomo di mezza
età che perde il lavoro e non può mandare avanti la famiglia; è essere donna perché non ci sono le possibilità di lavoro che una donna può svolgere; è non avere la casa o averne una che non è degna di questo nome.
Come aiutare questi ultimi?
Non tanto riempiendo i vuoti, perché delle volte pensiamo che la carità sia dare qualcosa al povero, la carità è soprattutto ridare dignità all’uomo che, come dice il Vangelo è mezzo morto, non ce la fa a vivere completamente ed allora anche il modo di fare carità dovrebbe cambiare, non è ti do soldi e basta, il microcredito non è l’osso gettato al cane, “ti do l’osso spolpalo”, la carità è “vediamo se ti posso
aiutare affinchè tu possa sentire la gioia di vivere come fanno gli altri”. Combattere contro tutto ciò che è fragile, che è marginale è ridare dignità alle persone, io tento sempre di non dare del denaro a vuoto, e, chi lo riceve faccia qualcosa per meritarselo, l’elemosina è “ti do il denaro non mi interessa” la carità è far dire all’altro “questo denaro me lo sono guadagnato anch’io!”
In quest’anno appena trascorso abbiamo potuto notare la sua attenzione per gli eventi culturali, con la promozione di eventi e mostre, e al mondo dei ragazzi e dei giovani, con la visita nelle scuole.
Sono convinto che la cultura riscatti l’uomo. Più cultura c’è, più umanità c’è, più uomo c’è. E proprio in una terra che si sente in periferia, abbandonata, la via della cultura è quella che permette di riscattarsi perché la cultura non è sapere tutto o sapere molte cose, è la scoperta, la consapevolezza del mio esserci. Tutte le olte che ci sono, che mi sento, che mi sento protagonista sto facendo cultura e quanto più la cultura passa anche attraverso le viuzze e le case della gente semplice più riscatto ci sarà. I furbi non hanno interesse a che ci sia cultura perché chi non ne ha è un uomo facilmente addomesticabile, chi ha cultura pensa, giudica, critica, vuole, lotta, si impegna ed è per questo che ritengo sia una strada da percorrere. La cultura non è di alcuni, l’uomo colto può essere chiunque, il contadino, il semplice operaio, è l’uomo che cammina ad occhi aperti che sa dove mettere i piedi e che vuole mettere i piedi al posto giusto.
Ai giovani ha indicato in più occasioni la figura del giudice Livatino, sarà il testimone per il Giovaninfesta del 2010 perchè proprio lui?
Nel nostro mondo bisogna cominciare ad usare parole che non pronunciamo quasi mai. Pronunciamo molto la parola amore però è diventato così vago che, qualche volta, non significa niente, addolcisce soltanto le bevande; credo che non ci possa essere catechesi nelle nostre parrocchie senza la parola giustizia, legalità, responsabilità, impegno. Il Vangelo è per gli uomini forti, il Vangelo non è il dolcificante o la camomilla che il Signore ci ha messo a disposizione, il Vangelo scuote e, in una terra come la nostra, dobbiamo mettere in ballo queste parole. La figura di Livatino mi interessa. Vorrei che pensassimo un po’ di più a quest’uomo per essere aiutati da lui a scoprire che cosa significa saper andare controcorrente. Vederlo sugli altari sarà bello ma percorrere le stesse sue strade, sentire il bisogno di diventare suoi compagni, questo è importante. I giovani hanno bisogno di vedere che si può avere coraggio e tentare qualcosa di diverso, non è detto che il male debba avere il sopravvento dirigere il traffico. Vorrei che ci scuotessimo un po’ prima di incominciare il cammino per arrivare alla beatificazione, riscoprendo che, anche per noi, una vocazione di quel tipo è possibile».
Carmelo Petrone – Marilisa Della Monica
L’Amico del Popolo