AGRIGENTO. San Gerlando, il messaggio dell’Arcivescovo alla città e all’Arcidiocesi
Quest’anno, il Solenne Pontificale di san Gerlando sarà presieduto dal vescovo di Tunisi, mons. Lahham. Riportiamo di seguito l’omelia che il nostro arcivescovo ha tenuto durante la celebrazione dei primi vespri di San Gerlando, il 24 febbraio rivolgendosi alla città di Agrigento ed a tutti gli abitanti della diocesi.
«Vorrei che la festa del nostro protettore s. Gerlando fosse vissuta da tutti come un invito alla santità. La santità può sembrare un tema non attuale o qualcosa che interessa solo alcune categorie di persone (religiosi, sacerdoti). Essere santi non significa essere degli Ufo tra gli umani o dei superman fuori della realtà, bensì persone vere, mature, grandi, perché “la santità è la misura alta della vita cristiana ordinaria” (NMI 31). La santità normalmente è ordinaria – non intendo dire insignificante – è legata alle situazioni normali, quotidiane, alla portata di tutti. I suoi vestiti sono il grembiule, la tuta, il camice. E, proprio perché viviamo tempi non facili, in cui lo stesso Dio sembra un clandestino a cui si dà sempre meno spazio, il nostro è tempo di santi. Paolo VI a ragione diceva: “Gli uomini di oggi sono più disposti ad ascoltare i testimoni che i maestri”. Qualcuno ha completato queste parole con: «Nel nostro tempo in cui si ascoltano più volentieri i testimoni che i maestri, ma si ascoltano anche i maestri quando questi sono insieme testimoni».
Senza i santi il cristianesimo non riuscirebbe a parlare agli uomini di oggi. A questo mondo piatto, senza slanci e anonimo, attrezzato di varie e variopinte maschere, la sfida cristiana è la santità. Siamo chiamati, infatti, a imitare la santità di Dio “veramente santo e fonte di ogni santità”.
La santità ci rende belli e amabili agli occhi di Dio. La bellezza genuina «è un altro nome della santità» (Clément). Bella è la co¬munione, ‘bella è la Parola, bello è il pane eucaristico, bello è il Pastore’. Bello è s. Gerlando perché ha vissuto per e con le sue pecore, belle sono le opere da lui compiute perché, in una terra in cui erano rimasti pochi cristiani, hanno manifestato l’ amore di Dio per gli uomini.
Se è bello il Pastore, non può non essere bello il suo gregge, la Chiesa. Paolo ne parla così: “Chiesa gloriosa, senza macchia o ruga o alcunché di simile, ma santa e irreprensibile” (Ef 5,27).
La santità ci sarà se alla conclusione della nostra vita potremo dire che abbiamo fatto ciò che dovevamo. Madre Teresa diceva che la santità è un dovere per tutti e p. Cantalamessa affermava “o santi o falliti”. Possiamo dire che la santità è l’unico modo di essere cristiani.
Non sentiamoci bloccati dinanzi a tale proposta solo perché non ci sentiamo all’altezza. I miracoli non ne sono l’unica misura. Essa è esperienza d’amore. È l’incontro tra l’amore di Dio per noi, e la nostra risposta a Lui. Non raggiungeremo la santità solo perché rispettiamo le norme e siamo fedeli ai divieti. Era il rimprovero che Gesù rivolgeva ai farisei. Ma la santità ci sarà solo se si vive la fede in un contesto d’amore, perché l’amore aiuta chi è caduto a rialzarsi, chi sbaglia a ravvedersi, chi resta indietro ad affrettare il passo, chi è in cammino a procedere più velocemente. Dice la S. Scrittura: “il santo si santifichi ancora” (Ap, 22,11). L’amore, lo sappiamo, può tutto.
Il ladrone che riesce a sentire l’abbraccio di Dio, alla conclusione e dopo una vita vissuta malamente, ci dice che non è mai troppo tardi per diventare santi.
Nei luoghi della nostra vita quotidiana (lavoro, studio, famiglia, amicizia, politica, divertimento, ecc.) – lo ripeto – dobbiamo vivere coerentemente e credibilmente la nostra fede, in una parola, la santità. Non la raggiungeremo se cercheremo rifugio nelle nicchie sicure e comode, o solo recitando fredde preghiere e sterili mortificazioni che non aprono alla carità. Anche queste ci vogliono, ma non solo. Paolo VI diceva: “Cristiano, sii cosciente; cristiano, sii coerente; cristiano, sii fedele; cristiano, sii forte; in una parola: cristiano, sii cristiano”.
Se le vie della santità sono molteplici, una di queste, è quella dell’uomo. Cristo ha percorso le strade delle città per incontrare gli uomini, dai più semplici a quelli importanti, dai malati ai dotti, dalle prostitute agli uomini timorati di Dio. E dopo aver lavato i piedi ai discepoli ci ha detto: “Io vi ho dato un esempio, perché facciate come io ho fatto a voi” (Gv 13,15). Quale esempio? La carità. Con la lavanda dei piedi e con l’invito a ripetere il suo gesto non ci ha chiesto solo di imitarlo, ma ci ha affidato un compito.
L’impegno, cioè, di annunziare la parola e la speranza, di proclamare e testimoniare con i fatti la fede, senza paura, sempre, nonostante. Ci ha affidato il Vangelo al quale dobbiamo convertirci ed essere fedeli. E’ il Vangelo a dire che la via privilegiata della santità è quella dei poveri di voce, di pane, di potere, di cultura, di coloro che si sentono inutili, senza speranza, che soffrono, che sono emarginati dalla società per bene. La santità si raggiunge se ci guardiamo attorno – come diceva mons. Bello – con dentro di noi gli occhi dei poveri, se ci mettiamo, cioè, dalla loro parte. Attenti, non è un posto che siamo liberi di scegliere o rifiutare, il farlo o non farlo non dipende da noi, è un posto che il Signore affida a chi si mette dalla sua parte. Rifiutarlo è dire di no a Lui. Occuparlo è la prova della nostra amicizia a Lui. E’ un posto scomodo, perché i poveri sono scomodi per tutti, anche per la Chiesa. Ma sono convinto che stare dalla loro parte non è mettersi contro alcuno. Per il credente ripartire dagli ultimi non è una protesta, ma un atto di fede. Semmai i poveri stessi, anche se tacciono, sono il forte grido di protesta che si innalza così alto da raggiungere il cielo ed essere ascoltato da Dio. Il capitolo 25 di Matteo dice che non ci è permesso lasciare soli gli emargi¬nati lungo la strada della vita, difficile per tutti, ma soprattutto per loro.
Ricevere il dono della fede significa rispondere a due inviti: “Vieni e seguimi” e “Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti”. Tentare di osservarli è vivere la carità. Questo vale per tutti, per il semplice cristiano e per il Vescovo. Questa è stata la via seguita da Gerlando quando è arrivato in questa terra d’Agrigento.
Chiedete al Signore che io, in ogni situazione, sappia fare mie le parole pronunciate da Paolo VI all’ONU: «Non abbiamo alcuna cosa da chiedere, nessuna questione da sollevare; se mai un Desiderio da esprimere, e un permesso da chiedere, quello di potervi servire in ciò che a noi è dato di fare, con disinteresse, con umiltà e amore… Voi conoscete la nostra missione; siamo portatori di un messaggio per tutta l’umanità … Noi … sentiamo di fare nostra la voce dei morti e dei vivi … E facciamo nostra la voce dei poveri, dei diseredati, dei sofferenti, degli anelanti alla giustizia, alla dignità della vita, alla libertà, al benessere e al progresso».
Gerlando ci insegna che la carità, e perciò la santità, è essere fedeli alla propria chiamata, è impegnare attivamente e responsabilmente la fede dove si vive. È costruire insieme, nonostante le differenti e talvolta contrastanti idee, il progetto di Dio su questo territorio. E in me, ve lo assicuro, mai è venuto meno questo impegno e questo desiderio. Guardiamo – come agrigentini siamo suoi figli – a Gerlando perché il suo esempio sia di incoraggiamento a tutti, a noi credenti in particolare, per una testimonianza coraggiosa. Egli interceda perché in questa nostra terra non abbia mai a mancare la concordia, l’impegno comune, la fiducia reciproca, la collaborazione sincera, la libertà dei cuori che evita i giudizi, la ricerca del bene comune, uno sguardo fiducioso al futuro, l’impegno nella costruzione di una dignitosa città, e soprattutto che tutti possiamo sentire e godere della paternità amorevole di Dio.Mi piace chiudere con due affermazioni. La prima è del card. Suhard: “Santità è vivere una vita in modo tale che essa non si potrebbe spiegare se Dio non esistesse”. E l’altra è di Bonheffer: “Se ti accusassero di essere cristiano troverebbero delle prove contro di te?”.