6 Febbraio 2025
Agrigento e Provincia

Grande commozione a Siculiana in ricordo del cronista Mario Francese ucciso dalla mafia

Grande commozione ieri sera a Siculiana in ricordo di Mario Francese, il cronista del Giornale di Sicilia ucciso dalla mafia il 26 gennaio del 1979. Presentato durante gli eventi di “Siculiana tra le righe, un libro tra le mani” il libro “Il quarto comandamento” (Rizzoli) scritto da Francesca Barra dopo oltre trenta anni dal delitto che racconta la storia di Mario Francese e del figlio Giuseppe che si battè con tutte le sue forze per avere quella giustizia arrivata solo dopo 20 anni dall’omicidio con le condanne dei boss che lo ordinarono.

Ne hanno discusso con Giulio Francese (a breve l’intervista video su comunicalo.it), il figlio del giornalista ucciso, i giornalisti Nino Randisi, Salvo Toscano, Daniele Billitteri, Stelio Zaccaria, il sindaco di Siculiana Mariella Bruno e il vice sindaco Giuseppe Zambito che hanno fortemente voluto questo evento per continuare a diffondere nel paese dei Caruana e dei Cuntrera la cultura dell’antimafia.

A Francesca Barra e a Giulio Francese assegnato il premio speciale per la legalità istituito in collaborazione con il Consorzio agrigentino per la legalità e lo sviluppo presieduto da Maria Grazia Brandara nell’ambito del concorso letterario “Torre dell’orologio”.

Commovente anche il ricordo di Giuseppe Francese, l’altro figlio del cronista che per primo affrontò le vicende e l’evoluzione della mafia corleonese dei Riina, dei Provenzano, dei Bagarella che dopo aver lottato per cercare la verità sul delitto del padre non riuscì più a sopportare il dolore della grave perdita e decise tragicamente di togliersi la vita.

“Credo che l’abbia fatto per andare a trovare nostro padre”, ha detto Giulio Francese che porta i segni di ferite ancora aperte e che difficilmente si potranno rimarginare anche se la pubblicazione del libro di Francesca Barra è un passo avanti perché il dolore familiare diventi memoria collettiva, patrimonio di tutti quelli che credono che non bisogna chinare la testa di fronte alla mafia, stimolo ed esempio di bravura e coraggio per i giovani che decidono di fare il mestiere del giornalista in Sicilia, che per chi si occupa di mafia talvolta è come essere inviati di guerra costretti in molti casi all’isolamento.

Ecco come Giuseppe Francese ricordava il padre nel 1998 sul giornale “L’inchiesta” in un articolo che come altri si può trovare sul sito www.fondazionefrancese.org.

CASTELLI DI RABBIA

Di Giuseppe Francese

C’è una frase di un libro di Alessandro Baricco ‘Castelli di rabbia’ che così recita: “Accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde”. Avevo dodici anni quando la sera del 26 gennaio del 1979 ho sentito da casa quella tragica sequenza di colpi di arma da fuoco. Sei per l’esattezza. Dal lì a poco scoprii che quei colpi avevano centrato il bersaglio, e che il bersaglio era mio padre, il giornalista Mario Francese. Da quel tragico momento la mia vita è stata sconvolta, come se quel lugubre rosario di colpi avesse leso irrimediabilmente qualche punto nevralgico della mia esistenza.

“Accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde”. Intanto crescevo ma contemporaneamente cresceva dentro me, diventando sempre più grande, un immenso vuoto ed un’incredibile ansia di giustizia. Ammetto che per un breve periodo la sete di verità si è trasformata in rassegnazione per una giustizia assai lenta ad arrivare. Ma la rassegnazione presto si è trasformata in rabbia.

Già, di ‘Castelli di rabbia’ in questi quasi venti anni ne ho costruiti, e tanti. La mia rabbia cresceva e si alimentava soprattutto per certi comportamenti inspiegabili da parte di ‘amici’ e ‘colleghi’ di mio padre, che più di tutti avrebbero dovuto in qualche modo intervenire, fare qualcosa, lottare: invece, nulla. Dimenticato. Come se quel corpo martoriato in viale Campania non fosse mai esistito, come se quell’ uomo semplice, corretto, buono, ma nello stesso tempo forte e tenace, non lo avesse meritato. Ma cos’è che li bloccava? Paura? O c’era qualcos’altro?

Rileggo un articolo pubblicato sul giornale L’Ora il 27 gennaio del 1979 a firma di Alberto Stabile, mentre mio padre si trovava ancora nella camera ardente. Scriveva testualmente:, “Amava le tesi a sorpresa, i colpi di scena. Il suo posto preferito era in piedi, accanto al Pubblico Ministero, quasi. volesse fare da suggeritore al ruolo della pubblica accusa, nel quale più spesso che negli altri finiva per identificarsi. Più volte davanti a certe preoccupazioni che gli attraversavano la mente e che egli stesso rendeva note con una punta di compiacimento misto a rammarico, gli fu detto di meditare sull’opportunità di assumere atteggiamenti di così aperta e in sostanza inutile sfida. Ma Mario Francese era fatto così, voleva sentirsi protagonista della vicenda giudiziaria di Palermo e non si curava se certe volte quella sicurezza ostentata rischiava di rasentare l’irresponsabilità”. L’articolo proseguiva su questo tenore,  in modo che definirei quanto meno irrispettoso nei riguardi di un collega ucciso da poche ore soltanto per avere avuto il coraggio, a differenza di tanti altri, di scrivere la verità.

Comprensibile, ma assolutamente ingiustificabile l’atteggiamento di Alberto Stabile con la sofferenza che doveva patire ogni qualvolta che Mario Francese, da grande segugio della notizia, dava dei “buchi” al giornale concorrente! Altro particolare significativo che mi piace ricordare  è l’intervista rilasciata dal dott Alberto Di Pisa (che è stato il Pubblico Ministero nelle prime indagini sul delitto Francese) per la trasmissione Mixer. In quell’ intervista, effettuata a sedici anni dall’omicidio, Di Pisa metteva ancora in dubbio che potesse trattarsi di un omicidio di mafia. Da sottolineare che l’anteprima Mixer trasmessa a Siracusa durante la manifestazione per la consegna del Premio Nazionale Mario Francese – terza edizione, non è stata mai mandata in onda dalla Rai, come si era ufficialmente impegnato a fare il direttore di Mixer, Giovanni Minoli. Mistero anche quello.

Inoltre il dottor Di Pisa, in un’intervista rilasciata al Giornale di Sicilia in data 13 settembre 1995 dichiarava: “Un’inchiesta da riaprire”. Come se non fosse stato lui il titolare delle inconcludenti indagini sull’omicidio, archiviato troppo frettolosamente soltanto dopo otto anni.

Per il primo anniversario della sua morte, il Giornale di Sicilia scriveva: “Francese: un anno di silenzio”. Era passato appena un anno e già sull’omicidio  Francese era calato il sipario. Ripenso a tutti quei libri scritti da ‘profondi conoscitori’ del fenomeno mafioso dove nella Sequenza, cronologica , dei delitti eccellenti  si  inizia sempre dal 21 luglio del 1979, giorno dell’omicidio del Vicequestore Boris Giuliano, trascurando quel 26 gennaio del 1979, data in cui cominciava realmente il violento attacco alle istituzioni da parte del feroce clan dei corleonesi. Quel 1979 terribile dove, in un crescendo impressionante di vittime eccellenti non a caso si inizia con un giornalista come Mario Francese. Con: lui i corleonesi hanno voluto colpire non soltanto l’uomo, ma anche minacciare e cercare di assoggettare l’istituzione (cioè il giornale) per cui lavorava.

Il 12 novembre 1998, il giudice per le indagini preliminari “ del Tribunale di Palermo, dottor Gioacchino Scaduto, su richiesta  avanzata dal  Pubblico Ministero, dottoressa Enza Sabatino, ha emesso un’ordinanza di custodia cautelare contro  l’intera ‘Cupola’ di Cosa Nostra, o meglio, contro i superstiti della ‘Commissione mafiosa’ operativa nel 1979: Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Giuseppe Calò, Giuseppe Farinella, Nenè Geraci, Michele Greco, Francesco Madonia, Matteo Motisi, quali mandanti dell’omicidio Francese.

Secondo le richieste del Pubblico Ministero, ad eseguire l’omicidio sarebbero stati Leoluca Bagarella e Giuseppe Madonia. Ma per questi ultimi, a parere del gip non ci sarebbero sufficienti indizi di colpevolezza. Pertanto, per loro la richiesta di custodia cautelare è stata al momento rigettata. Mario Francese, secondo la Procura della Repubblica di Palermo, sarebbe stato ucciso per le sue inchieste giornalistiche ed in particolare per quelle riguardanti il clamoroso omicidio del tenente colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo,  e per quelle sui rilevanti interessi mafiosi, ed in particolare della parte corleonese facente capo a Totò Riina, nella ricostruzione del Belice e, più specificamente, nella realizzazione di una delle più imponenti opere pubbliche  quegli anni, la diga Garcia. A confermare questa tesi ci sono ben cinque collaboratori di giustizia: Gaspare Mutolo Angelo Siino, Gioacchino Pennino, Francesco Di Carlo e Giovanni Brusca. Dall’indagine sono emerse anche frequentazioni tra alcuni editori e giornalisti del Giornale di Sicilia ed esponenti di spicco di Cosa Nostra. Mi auguro che si faccia al più presto piena luce e che paghino non soltanto i soliti noti, ma chiunque abbia avuto una qualche  responsabilità nell’omicidio, a qualsiasi livello, noto e ignoto.

Siamo soltanto all’inizio, ma è già qualcosa. “Accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde”. Sono passati quasi venti anni e la vita sta rispondendo. A tutti loro. Spero adesso che i miei ‘Castelli di rabbia ’ si trasformino presto in semplici castelli di sabbia costruiti in una quieta spiaggia, spianata dalla verità e dalla giustizia. Per concludere vorrei ringraziare il Pubblico Ministero, la dottoressa Enza Sabatino, che ho avuto modo di conoscere ed apprezzare non soltanto per la sua serietà professionale ma anche per le sue doti umane.