Mafia, la mappa dei clan in provincia di Palermo: 15 mandamenti e 80 famiglie
“Cosa nostra palermitana mantiene un’architettura imperniata su famiglie e mandamenti. In particolare, dalle più recenti acquisizioni info-investigative, il territorio risulta suddiviso in 15 mandamenti (8 in città e 7 in provincia), composti da 80 famiglie (32 in città e 48 in provincia). Come accennato nella parte introduttiva, le più recenti evidenze info-investigative danno conferma di un certo fermento tra le famiglie palermitane, alla ricerca di una rimodulazione degli assetti gestionali interni, necessari per assicurare alla struttura criminale, sempre più in affanno, una guida definita e riconosciuta. Emergerebbe un malcelato senso d’insofferenza verso la leadership corleonese, costituita in massima parte da anziani boss detenuti con pene definitive all’ergastolo, taluni dei quali in precarie condizioni di salute. In mancanza di un organismo decisionale di vertice, cosa nostra avrebbe riconosciuto legittimità ad un organismo collegiale provvisorio, costituito dai capi dei mandamenti urbani più forti e rappresentativi della città. Si tratterebbe di una ‘cupola’ anomala, una sorta di direttorio chiamato a funzioni di consultazione e di raccordo strategico fra i mandamenti palermitani, con l’incarico di esprimere, in via d’urgenza, una linea comune nell’interesse dell’organizzazione e nel rispetto dell’autonomia operativa delle famiglie in esso rappresentate”. E’ quanto si legge nella relazione semestrale della Direzione investigativa antimafia (prima metà del 2017), trasmessa alla Camera.
“Inoltre, il potere di direzione ed elaborazione delle linee strategiche fondamentali – si legge nella relazione – risulta spesso esercitato, pur in assenza di una formale investitura,da anziani uomini d’onore, ai quali viene riconosciuta un’autorità superiore ed una diffusa influenza sul territorio. Ciò, in virtù dell’autorevolezza che gli deriva dall’excursus criminale e dai ruoli già ricoperti all’interno dell’organizzazione mafiosa. Non a caso, negli ultimi anni diverse operazioni di polizia hanno messo in luce come, una volta scarcerati, anziani boss, anche ultraottuagenari, riprendano il loro posto e si dedichino alla riqualificazione e alla riorganizzazione delle famiglie, nel frattempo decimate da arresti e pesanti condanne. Allo stesso modo, anche ai livelli intermedi dell’organizzazione verrebbero “recuperati” sodali storici – ossia appartenenti a famiglie di chiara tradizione mafiosa e di provata “fedeltà” – per dirimere le criticità dovute ad un’eccessiva conflittualità interna e alla scarsa affidabilità dei nuovi affiliati, sempre più spesso provenienti dalle fila della criminalità comune.
Cosa nostra palermitana, in sintesi, continuerebbe ad attraversare una fase di transizione e di rimodulazione, sforzandosi di conservare una struttura unitaria e verticistica, per massimizzare, finché possibile, i profitti derivanti da un “paniere” di investimenti, certamente meno rilevante rispetto al passato. A tal fine, ciascuna famiglia(o mandamento) si sarebbe conquistata una maggiore autonomia, funzionale per garantirle un sufficiente livello di operatività soprattutto in quelle aree ove le attività investigative si sono rivelate più penetranti. Scelte operative a volte dolorose e conflittuali che potrebbero alla lunga produrre riflessi sull’esatta competenza territoriale dei mandamenti e delle famiglie, improntata a schemi meno rigidi rispetto al passato. Secondo tale ottica, potrebbe essere maturato l’omicidio, avvenuto il 22 maggio 2017, di un anziano uomo d’onore del mandamentodi Palermo-Porta Nuova, frangia dell’organizzazione già colpita da numerose operazioni anticrimine che ne hanno depotenziato gli organigrammi e scompaginato la struttura di vertice, determinando così un vuoto di potere. Fatto di sangue grave, che appare il segnale di una situazione in evoluzione, riconducibile alla necessità di mafiosi emergenti di affermare la propria autorevolezza e scalare posizioni di potere. Già nel mese di gennaio, la Polizia di Stato aveva proceduto all’arresto di due soggetti organici alla famiglia dell’Acquasanta, accusati di un tentativo di estorsione nei confronti di un operatore commerciale.
Proprio la famiglia dell’Acquasanta è stata al centro di un’importante azione di contrasto patrimoniale messa a segno dal Centro Operativo della D.I.A. di Palermo nel mese di maggio. Le investigazioni hanno portato al sequestro di dodici immobili, del valore di 5,5 milioni di euro, nei confronti di un imprenditore palermitano ritenuto contiguo alla citata famiglia mafiosa. Tende a disegnarsi, così, la fisionomia di un’organizzazione che, pur continuando a perseguire una metodologia operativa di basso profilo e mimetizzazione, rimane una struttura dotata di vitalità e di una certa potenzialità offensiva, ancora diffusamente ramificata sul territorio. Non a caso, tra le attività di cosa nostra, continua a rivestire una valenza strategica l’imposizione del “pizzo” che, oltre a rappresentare una fonte primaria di sostentamento, diventa un ottimo strumento di controllo e di condizionamento del contesto sociale. Emblematica appare, in proposito, l’operazione denominata “Happy Holidays”, con clusa nel mese di maggio dall’Arma dei Carabinieri, che ha disvelato la composizione organica e le attività delinquenziali, tra cui quella estorsiva, della famiglia di Altofonte. L’indagine rappresenta la naturale prosecuzione dell’operazione “Quattro Punto Zero”, che nei primi mesi del 2016 aveva azzerato i vertici del mandamento di San Giuseppe Jato e delle dipendenti famiglie, contestando agli arrestati i reati di associazione di tipo mafioso e di estorsione. È del mese di maggio, invece, il sequestro “per equivalente” di beni per un valore di 4,5 milioni di euro, eseguito sempre dalla D.I.A. di Palermo nei confronti di due imprenditori del luogo, operanti nel settore degli idrocarburi, in passato ritenuti contigui alla famiglia mafiosa di Villabate (mandamento di Bagheria). I due, al fine di sottrarsi al pagamento di I.V.A. ed I.R.E.S. avevano simulato, attraverso alcune società a loro riconducibili, la compravendita di terreni edificabili nel territorio di Caltanissetta, e di otto impianti di distribuzione di carburante nei comuni di Palermo, Catania, Messina, Caltanissetta, Villabate, Castellamare del Golfo e Partinico.
Nonostante questi rilevanti investimenti, sul piano generale cosa nostra soffrirebbe una certa crisi di liquidità, per sopperire alla quale si starebbe dedicando anche ad attività illegali di più basso profilo, un tempo appannaggio della delinquenza comune. Si registra, infatti, una recrudescenza dei reati predatori verso istituti di credito, uffici postali e oreficerie, nonché ai danni di rivendite e di autotrasportatori di tabacchi. Dall’analisi di tali eventi delittuosi – perpetrati da bande armate composte anche da elementi di storici gruppi familiari di cosa nostra – è ragionevole leggere un interesse criminale di più ampia portata. Il numero elevato delle rapine consumate in diversi quartieri palermitani e la presenza di un consolidato circuito di ricettazione, sembrano infatti confermare la citata tendenza di cosa nostra a non trascurare i settori di minor spessore criminale. A questa costante presenza sul territorio, cosa nostra palermitana riesce ad affiancare la capacità di proiettarsi oltre, divenendo parte di un sistema criminale integrato che vede partecipi anche la ‘ndranghetae la camorra, e il cui epicentro ruota attorno al business degli stupefacenti. Conferme in tal senso possono essere colte dall’analisi di due importanti operazioni di servizio concluse nel semestre dalla Polizia di Stato di Palermo. La prima, del mese di febbraio, ha scardinato un’organizzazione dedita all’approvvigionamento di stupefacenti destinati al mercato palermitano. Tra i destinatari del provvedimento figurano soggetti, in contatto con le ‘ndrinecalabresi, e già annoverati nell’organico della famiglia mafiosa di Palermo-centro. Con la seconda, denominata “Dead Dog”, conclusa il successivo mese di marzo, è stato definito il quadro delle attività illecite di una organizzazione che, dalla Calabria, attraverso un intermediario milanese, reperiva stupefacente destinato allo spaccio nella città di Palermo. Anche in questo provvedimento, alcuni dei sodali risultavano organici alla famiglia mafiosa di Palermo-Resuttana.
Proprio in relazione a vecchie dinamiche intestine al mandamento di Resuttana, nel mese di gennaio 2017 la Procura Generale presso la Corte d’Appello di Milano – dopo la sentenza di condanna di quella Corte di Assise d’Appello – ha delegato alla D.I.A. di Milano l’esecuzione di quattro ordinanze di custodia cautelare (una delle quali eseguita a Prato), nei confronti dei responsabili di due omicidi consumati tra la fine degli anni ‘80 e i primi anni ‘90: il primo era il sottocapo del mandamentodi Resuttana, l’altro un esponente del clancatanese c.d. dei “Cursoti Milanesi”. I mafiosi assassinati erano impegnati a sancire le alleanze, nella Milano di quegli anni, tra le famiglie catanesi e quelle palermitane. Tornando alle attuali dinamiche criminali del capoluogo, Palermo oltre che area di destinazione e spaccio degli stupefacenti, costituisce anche bacino di approvvigionamento per l’intero territorio regionale. Significativa di questa portata strategica della città – segnatamente del porto – è l’operazione che la Guardia di Finanza di Catania ha concluso nel mese di marzo, e non a caso denominata “Narcos”. Le indagini hanno portato al fermo di tre soggetti, due dei quali contigui alla famiglia di Brancaccio ed al sequestro di oltre 110 chilogrammi di cocaina, celati in una nave cargo proveniente dall’Ecuador. I fermati facevano parte di un’organizzazione transnazionale che mirava ad utilizzare il porto di Palermo come snodo principale dei propri traffici, senza escludere tuttavia spedizioni a Livorno, Genova e Salerno, area, quest’ultima, dove è stato poi effettivamente eseguito il sequestro. Continuando ad esaminare il settore degli stupefacenti, per le attività di spaccio sul territorio della provincia, cosa nostra sembra tollerare la presenza di gruppi organizzati stranieri soltanto in ruoli marginali, di cooperazione o di subordinazione. Come accennato nel paragrafo dedicato all’analisi del fenomeno, l’espressione del potere mafioso, oltre a manifestarsi nelle sopra descritte forme di coercizione e controllo, non rinuncia a quello che rimane un tratto distintivo dell’organizzazione siciliana, ossia la capacità di condizionare gli apparati politico-amministrativi locali. È il caso, nel semestre, dello scioglimento per infiltrazioni mafiose del Comune di Borgetto (PA), in conseguenza delle evidenze giudiziarie emerse con l’operazione “Kelevra” dell’Arma dei Carabinieri, che ha fatto luce sul modus operandi della locale consorteria mafiosa, inserita nel mandamento di Partinico (PA). Il clan aveva instaurato rapporti con alcuni esponenti della locale amministrazione comunale, per ottenere appalti nel settore della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani (attraverso l’affidamento diretto, in molti casi giustificato con ordinanze di somma urgenza, dei lavori di manutenzione delle strade), nonché contributi di varia natura. Appare opportuno soffermarsi proprio sui contributi ottenuti, richiamando alcuni passaggi della proposta di scioglimento del Ministro dell’Interno (datata 2 maggio 2017 e allegata al Decreto), in quanto consentono di stimare, tra l’altro, la natura parassitaria della presenza mafiosa sul territorio.
Il Ministro non manca infatti di evidenziare come l’organo ispettivo prefettizio avesse “disposto verifiche sulle procedure di elargizione di contributi e provvidenze economiche con particolare riferimento ad un progetto denominato «servizio 100 ore», che prevede l’utilizzo di lavoratori in condizioni di indigenza e necessità”. A conclusione della procedura, prosegue il Ministro, “è emerso che nel 2015 il figlio dell’attuale reggente della «famiglia» mafiosa di Borgetto, condannato con sentenza irrevocabile per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, è stato ammesso a tale procedura, connotata da numerose lacune e irregolarità sia nella fase di individuazione dei lavoratori che in quella di liquidazione degli emolumenti”. Non solo sussidi sottratti fraudolentemente a persone indigenti ma, anche, una pressoché totale mancanza di contribuzione dei tributi locali, con una evidente connivenza degli amministratori. Eloquente, anche in questo caso, la relazione del Ministro: “La commissione d’indagine ha, inoltre, proceduto ad estrarre dai ruoli predisposti dall’ufficio singole posizioni riferite ad un campione di contribuenti individuati tra soggetti appartenenti alla locale criminalità organizzata e tra amministratori locali, con riferimento in particolare alle obbligazioni derivanti da I.M.U., T.A.R.S.U., T.A.R.E.S. e T.A.R.I.. È emerso che il 100% dei soggetti riconducibili alla criminalità organizzata non ha pagato in tutto o in parte quanto accertato dal servizio tributi e, in taluni casi, alcuni di loro non sono nemmeno stati indicati come debitori, mentre solo il 4% degli amministratori locali ha regolarmente pagato quanto accertato dal servizio tributi”.