6 Dicembre 2023
Agrigento e ProvinciaCultura & Società

Lo scultore Salvatore Rizzuti e il mito: ”Sciascia mi fece leggere Ovidio”

Fino al 26 aprile il Museo della ceramica di Burgio, nell’Agrigentino, espone trentasei opere scultoree (una decina di grande formato) di Salvatore Rizzuti, nato e cresciuto nella vicina Caltabellotta e trapiantato da giovane a Palermo, dove per trentacinque anni ha insegnato all’Accademia di belle arti e dove oggi vive. Fino all’eta’ di nove ha fatto il pastore, creandosi i suoi giocattoli intarsiandoli nel legno, poi e’ andato a scuola, ha continuato a scolpire finche’ ha conosciuto Bruno Caruso e Leonardo Sciascia, che gli hanno aperto la strada. Oggi e’ ritenuto, con Peppino Mazzullo, Emilio Greco, Francesco Messina e Mario Pecoraino (nomi indicati nel catalogo dal critico Giovanni Bonanno), espressione della migliore scultura siciliana del nostro tempo

Rizzuti scolpisce in un piccolo studio di Monreale dove abita, ma d’estate torna nella sua grande casa natale di Caltabellotta che ospita una sua galleria privata alla quale si aggiunge il campionario donato alla galleria permanente allestita a Palazzo della Signoria. La sua vita ha della favola. “Mio padre – racconta all’AGI – era un comunista e un pastore all’antica che leggeva di politica e conosceva a memoria tutta ‘La Divina Commedia’. Componeva liti tra le persone citando versi di Dante che recitava come articoli di legge. La gente lo chiamava ‘zu Luciano, il nome che ho dato a mio figlio, e lo cercava anche per scrivere e leggere lettere. Sono cresciuto con lui nelle campagne e nelle grotte, sempre all’aperto e a contatto con la natura. Mi stimolava ad appassionarmi alla politica ma io ero attratto dal mondo che mi circondava. Un giorno mi regalo’ un libro di storia su Roma Antica e, scoprendo cos’era la pecunia, me ne creai una di legno d’ulivo usando un coltellino. La conservo ancora. Quando andavo in paese mi piacevano al cinema i kolossal, i film storici pieni di eroi e dei’ greci e romani. La mia ispirazione legata al mito credo mi sia nata proprio da bambino”. Rizzuti ha fatto del mito la propria musa, ma non e’ un passatista. Nel mito vede la voce eterna dell’uomo e la sfera dell’inconscio, per modo che persegue non l’interesse a risvegliare il mondo classico ma quanto la sua anima puo’ continuare a dire all’uomo contemporaneo anche in maniera subliminale. Pensa dunque da artista di oggi creando composizioni del mondo di ieri, mantenendo sin dall’inizio e per oltre cinquant’anni una linea di coerenza circa i temi oggetto delle sue opere che qualcuno ha pero’ interpretato come fossilizzazione.

 Eppure dall’inizio del nuovo secolo Rizzuti ha mutato lievemente registro scegliendo un linearismo che si e’ tradotto non solo in una maggiore scelta di incompletezza dell’opera, una specie di “non finito” michelangiolesco, ma anche in un affusolamento delle forme che oggi appaiono meno cesellate, tendenti o forse cedenti verso un gusto che depone per un astrattismo di risonanza informale. Ma tale svolta non e’ ammessa dall’artista: “Sono sempre stato un figurativo e come tale non sono io a scegliere i temi, perche’ li sento nascermi dentro, suggeriti dal mio inconscio. Faccio percio’ Medea non per celebrarne il mito ma per rappresentare la violenza connaturata nell’uomo e il dramma familiare, temi non dell’antica Grecia ma di tutti i tempi”. E “Medea 2”, in legno di cipresso, opera del 2018, e’ di fatto tra le creazioni piu’ espressive e significative della mostra di Burgio. Se il corpo, a esclusione del seno scoperto, e’ levigato in un peplo inferiore privo di ornamenti e pieghe, il volto e’ ricchissimo di un pathos nel quale e’ facile cogliere attraverso lo sguardo vitreo, la fronte corrugata, la faccia severa, la tragedia della madre e la follia cosmica. In forza di questo clima esistenziale e universale la mostra non per caso e’ percio’ intitolata “Le mille forme dell’anima”. Scrive Giovanni Bonanno di lui nel catalogo: “Lo affascinano il titanismo dell’universo, la grandiosita’ degli eventi, la potenza degli dei, l’audacia degli eroi, il groviglio delle coscienze, l’enigma del destino”.

Rizzuti e’ stato innanzitutto stregato da piccolo dalla visione panteista che fino ai diciotto anni lo ha nutrito vivendo in campagna. Trasferito a Palermo e visitando da studente le mostre alla Tavolozza, ha conosciuto Bruno Caruso che, ammirando lo scultore agreste e genuino capace di trasformare il legno in opere d’arte, ha allestito una sua prima esposizione recensita con lode anche da Sciascia sul Corriere della sera Illustrato. “Ne fui enormemente lusingato – dice all’AGI l’artista settantaquattrenne – e accolsi con orgoglio l’invito di Caruso a esporre alla Ca’ d’Oro di Roma, che era di fronte al famoso Caffe’ Greco. Alla galleria, durante la mostra, veniva quasi ogni mattina Sciascia e m’invitava a prendere un caffe’ proprio li’, nel tempio della societa’ letteraria e culturale, cosi’ da invitare suoi amici e conoscenti a visitare la mia mostra. Alcuni di loro mi guardavano dall’alto in basso, altri si complimentavano. Mi sentivo un pesce fuor d’acqua, anche perche’ avevo le scarpe rotte, con le suole aperte, e vestivo in maniera davvero trasandata. Sciascia mi diceva di non badarci e di darmi importanza”.

Fu lo scrittore di Racalmuto che gli consiglio’ di leggere “Le Metamorfosi” di Ovidio, apprezzando la sua inclinazione verso la classicita’, mentre Caruso pian piano si allontano’ da lui, dopo esserne stato il vero mentore. “Successe – ricorda Rizzuti – quando cominciai a lavorare la terracotta oltre al legno. Lui voleva che rimanessi il pastore-scultore degli inizi, tutto purezza e natura, ma io sentivo di dovere andare oltre, come mi spronava a fare Sciascia”. Caruso fece in realta’ di piu’: gli offri’ la possibilita’ di stabilirsi a Roma, quindi con ben altre prospettive, occupando uno studio in Piazza Navona che un suo amico gli avrebbe concesso in cambio ogni tanto di un’opera. Rizzuti, divenuto intanto insegnante precario all’Accademia di Palermo, disse no alla fortuna: “Ma chissa’ se sarebbe stata davvero fortuna. Certamente sarei dipeso dalle gallerie, dalla committenza e dal mercato e avrei perso la mia autonomia e la mia identita’. Rimanendo in Sicilia ho invece potuto fare quanto mi dettava il mio io. Avrei mai potuto realizzare il ‘Cristo maledicente’ se mi fossi consegnato al mercato?”.

Cosi’, la totale liberta’ preferita da Rizzuti a un sicuro successo ha consentito che la Sicilia possa oggi vantare non pochi monumenti pubblici di sua mano e una presenza che significa arricchimento culturale. Rizzuti, facendo come Sciascia, rimasto in Sicilia, e non come Caruso, figlio della diaspora, ha un grande merito: ha tenuto vivo nella sua terra il mito classico che in parte e’ stato anche frutto di essa. “Icaro”, “Il pianto di Agamennone”, Edipo a Tebe” e poi “Edipo a Colono”, “Persefone”, “Il canto delle sirene”, “Grande Madre”, “Minotauro”, “Prometeo”, “Achille”, “Salome'”: i legni e le terrecotte di contenuto classico, insieme con le composizioni degli ultimi vent’anni che involgono temi acronici e generali, quali “Apologia del silenzio”, “Donna gotica”, “L’ultimo viaggio” (sul dramma dei migranti), “Melancholia”, “Il freddo”: sono tutte opere che integrano scene plastiche, in movimento, come colte in un attimo fissato nel tempo (cio’ che amo’ infatti Scascia) e vogliono raccontare un fatto, vero, falso o concettuale che sia. Si prenda per tutte “Vespro siciliano”, uno dei gruppi scultorei piu’ datati, risalente al 1982, prova di emozionante impatto: ricorda la consegna nel 1282 della Sicilia da parte del Papato ai Francesi e si vedono raffigurati il pontefice che tiene ferma una donna sembiante della Sicilia mentre Carlo d’Angio’ la stupra. Esso solo vale la visita della mostra. (AGI)